L’orso polare è diventato il simbolo di una biodiversità in pericolo e soprattutto del riscaldamento climatico
L’orso polare è diventato il simbolo di una biodiversità in pericolo e soprattutto del riscaldamento climatico. Il riscaldamento globale sta mettendo sempre più a rischio la sopravvivenza dell'orso bianco, sciogliendo il ghiaccio marino, piattaforma ideale di caccia
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L'orso polare o orso bianco è un grande mammifero carnivoro appartenente alla famiglia Ursidae.
L'orso polare è immediatamente riconoscibile dalla pelliccia bianca. Diversamente da altri mammiferi dell'Artide, in estate il suo manto non diventa più scuro.
L'isolamento termico degli orsi polari è estremamente efficace contro il freddo, ma il loro corpo si surriscalda a temperature sopra i 10 °C.
L'orso polare è il membro che più si nutre di carne della famiglia degli Ursidi. La sua fonte proteica primaria è costituita anzitutto dalle foche, ma anche cetacei, trichechi, molluschi, granchi, pesci, persino vermi di mare, uccelli, piccoli di aquile e civette, ghiottoni, volpi polari, renne e lemming. Può mangiare anche bacche e rifiuti.
Uno studio ha dimostrato che l'animale è stato costretto a cambiare dieta optando per uccelli e uova in sostituzione delle prede marine. Ma non è sufficiente
Venti anni fa i biologi potevano descrivere la dieta di un orso polare in una parola: foche.
Ma da quando il riscaldamento globale continua a sciogliere il ghiaccio marino artico - e con essa l'accesso alle foche, la fonte di cibo primaria dell’orso bianco.
Il riscaldamento globale sta mettendo sempre più a rischio la sopravvivenza dell'orso bianco, sciogliendo il ghiaccio marino, piattaforma ideale di caccia.
L'orso bianco si trova così sempre più spesso a dover cercare il cibo sulla terraferma e alcuni esemplari hanno preso a nutrirsi anche di bacche, uccelli e uova, che però non possono sostituire la dieta tradizionale a base di foche, così ricche di grassi da assicurare una scorta lipidica sufficiente per sopravvivere durante i mesi invernali. A dirlo è uno studio del Geological Survey, agenzia scientifica del governo Usa.
Su una popolazione di orsi bianchi, che in genere va da 900 a duemila individui, solo una trentina sono stati visti mangiare uova di uccello. «Questo comportamento non è ancora comune, ed è comunque improbabile che possa compensare il declino delle condizioni fisiche e della sopravvivenza degli orsi causato dalla perdita di ghiaccio». Pochi cibi, infatti, hanno una densità energetica paragonabile alle prede marine, grazie a cui l'orso bianco consuma la dieta più ricca di grassi di qualsiasi altra specie. Il cibo che si trova sulla terraferma, sia animale che vegetale, ha invece un alto valore proteico ma pochi lipidi. A dimostrarlo c'è il fatto che gli habitat terrestri frequentati dall'orso bianco sono già occupati dai grizzly. Questi sono orsi più piccoli, e quindi con un fabbisogno calorico inferiore, eppure nelle regioni artiche si presentano con dimensioni inferiori rispetto alla norma e in popolazioni meno numerose. Stando agli esperti, ciò dimostra i «limiti nutrizionali della dieta terrestre, non più in grado di sostenere gli orsi polari in modo significativo».
L’orso polare è diventato il simbolo di una biodiversità in pericolo e soprattutto del riscaldamento climatico.
Tuttavia, la sua tutela si è mischiata con le vecchie e contemporanee questioni geopolitiche in un territorio, l’Artico, conteso dalle cinque nazioni circumpolari (Stati Uniti, Canada, Danimarca, Norvegia e Russia). Le ONG ambientaliste internazionalizzano la questione della sua tutela e del suo ambiente, senza essere sempre consapevoli della strumentalizzazione dell’animale. Allo stesso tempo, non sempre apprezzano nella giusta misura il ruolo geopolitico locale dei popoli autoctoni.
L'animale, simbolo di potenza ma anche in pericolo, è legato alla banchisa dove trova le sue prede preferite, le foche. Le superfici ghiacciate invernali stanno diminuendo. Queste potrebbero essere scomparse del tutto nell’estate del 2100 o addirittura del 2050. La specie è così diventata l’emblema della lotta contro il riscaldamento globale e le grandi ONG come Greenpeace sono solite organizzare eventi al fine di sensibilizzare la popolazione. Gli orsi bianchi, valutati tra 22.000 e 31.000, appaiono particolarmente minacciati anche da altri pericoli come la caccia, il bracconaggio o le sostanze inquinanti che si concentrano nei tessuti di questo ultimo anello della catena alimentare.
L'orso polare, Nanuk nella lingua degli Inuit che lo divinizzano e lo cacciano molto episodicamente, è associato, dai primi esploratori bianchi, con i pericoli dell’«inferno» polare. Questo predatore, i cui maschi più grandi possono superare i 600 kg e misurare da 2 a 3 metri di lunghezza, sembra regnare sovrano sulle distese ghiacciate. Cacciatori scandinavi, e in seguito russi, intensificarono la caccia agli orsi polari a cominciare dai secoli XIV e XV. Dal XVII secolo, olandesi, danesi e britannici, tra gli altri, ingaggiarono conflitti armati per prendere piede nell'Artico dove risorse promettenti (animali da pelliccia, foche, balene, merluzzi) erano già ambite. L'arcipelago delle Svalbard è particolarmente conteso e i norvegesi vi sfruttano le miniere dall'inizio del XX secolo. Quindi, la voglia e lo sfruttamento dell'Artico non sono novità; la fauna e soprattutto l'orso polare pagano da molto tempo un tributo pesante con l'eliminazione di massa.
Dagli anni '50, l'Artico è al centro della Guerra Fredda. Gli Stati Uniti hanno realizzato la linea DEW (Distend Early Warning Line), una rete di radar che va dalle isole Aleutine all’Islanda, passando per l’Alaska, il Canada settentrionale e la Groenlandia. L'obiettivo è quello di anticipare l'arrivo di missili o bombardieri provenienti dall'URSS attraverso la via più breve tra i due paesi e spiare il nemico. Delle basi militari, quindi, sono state installate nell'Artico. Fort Churchill (Manitoba, Canada) ne ha ospitata una delle più grandi. Situata sulla rotta migratoria del plantigrado, la città attuale è diventata una meta turistica. Durante una guerra fredda «calma» a queste alte latitudini, i soldati inoperosi sono responsabili della caccia eccessiva intorno alle basi militari statunitensi e canadesi. Sparare per uccidere la noia o riportare la pelle dell'orso come souvenir impreziosiva il giorno noioso.
La concentrazione delle popolazioni Inuit intorno a questi luoghi ha aggravato lo sterminio della specie. A ciò si aggiunge un inquinamento di lunga durata in un ambiente reputato immacolato. I sovietici hanno condotto test nucleari a Novaya Zemlya e hanno immagazzinato botti e reattori radioattivi nel mare di Kara e nel mare di Barents. Ma non sono i soli: i canadesi hanno anche abbandonato i rifiuti radioattivi vicino alle miniere di uranio nei pressi del Gran Lago degli Orsi. I militari americani hanno utilizzato due centrali nucleari, una in Groenlandia e l'altra in Alaska, lasciando sul posto scorie liquide radioattive, contaminando corsi d’acqua e le popolazioni locali. L'inquinamento da petrolio ha anche contrassegnato la vicinanza delle basi militari, la maggior parte delle quali sono state smantellate negli anni '90.
Nel 1965, i biologi che lavoravano nell'Artico si preoccupavano per la diminuzione delle popolazioni degli orsi polari e si consultavano nonostante la Guerra Fredda. Sovietici, americani, canadesi, norvegesi e danesi gettarono le basi per una collaborazione senza tener conto delle tensioni politiche.
Nel 1968, fu creato un gruppo di specialisti all'interno del Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (UICN), il Polar Bear Specialits Group (PBSG). Il primo ente lanciava un invito ai colleghi dei diversi paesi polari. A quel tempo, gli scienziati dimostrarono che la ricerca può andare oltre le divisioni e le tensioni geopolitiche.
Dopo numerosi incontri, i rappresentanti dei cinque paesi (Canada, Danimarca, Norvegia, Unione Sovietica e Stati Uniti d'America) si incontrarono a Oslo nel novembre 1973 per approvare The Agreement for Protection of Polar Bears, [L'Accordo per la Protezione degli Orsi Polari]. Allo stesso tempo, i negoziati politici volti a facilitare la cooperazione tra i due blocchi iniziarono e furono ratificati con gli Accordi di Helsinki nel 1975, che avrebbero dovuto alleviare le tensioni della Guerra Fredda.
Gli anni 1990-2000 hanno visto l'Artico perdere la sua importanza strategica ma la ritroverà in seguito a causa di nuovi interessi economici sulla zona.
Il petrolio si impadronisce spesso dei discorsi ma la posta in gioco attorno al gas e in particolare alle risorse minerarie (zinco, nichel, rame, oro, diamanti, uranio, terre rare...) è molto più alta.
Apparentemente, le compagnie petrolifere non hanno fretta e prendono precauzioni. Da un lato, sanno che l'Artico è un territorio «sensibile» per le mobilitazioni ambientali delle ONG e, dall'altro, questi spazi dipendono da Stati potenti.
Le tensioni tra gli Stati circumpolari esistono, ma sono smorzate sul modello dello statuto delle rotte marittime. Il Passaggio a Est è controllato dalla Russia che ha la migliore pratica di navigazione nelle acque dell'Artico grazie alla sua potente flotta di rompighiaccio nucleari. Il Canada vorrebbe sviluppare la rotta occidentale sempre più libera dal ghiaccio. Tuttavia, molti Stati, a cominciare dagli Stati Uniti, contestano queste appropriazioni nazionali in quanto considerano che dovrebbero ritenersi acque internazionali. Nella diversità delle questioni e delle tensioni geopolitiche, l'orso polare gioca un ruolo importante.
Quali sono oggi le minacce esistenziali per l'orso polare?
La scomparsa della banchisa legata al riscaldamento climatico e alla diffusione regionale e mondiale di vari inquinanti. Gli Stati Uniti e la Russia sono tra i primi contributori a queste minacce. È quindi facile richiedere la protezione completa di una specie senza collocarla in un contesto più globale. La caccia, attualmente, non è una delle principali minacce. In Canada e in Groenlandia, dove è praticata, è tuttora un vettore di conservazione del patrimonio culturale perché le autorità condizionano la caccia sportiva con l'uso di equipaggi di slitte trainate dai cani.
Farid Benhammou e Rémy Marion, 2017, « I retroscena geopolitici della tutela dell’orso polare », Géoconfluences, marzo 2018.
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