La coltivazione del melo è presente nella nostra Regione da oltre due millenni. L’utilizzazione di Pomoidee (meli e peri selvatici) risale alla preistoria.

 

Dagli studi archeobotanici eseguiti è emerso che nell’area friulana, le pomoidee selvatiche erano diffuse molto di più che in altre zone del Nord Italia e venivano impiegate per cingere i villaggi ed utilizzarne i frutti.

Con la fondazione della città di Aquileia nel 181 a.C. iniziò una profonda trasformazione del territorio dell’entroterra. In seguito alle opere di centuriazione furono bonificate, disboscate e messe a coltura ampie aree. L’avvio di una vera e propria coltivazione del melo risale proprio a quel periodo. Notizie sulla coltivazione del melo nelle campagne di Aquileia sono pervenute dal greco Ateneo e da Erodiano di Siria.

in particolare Ateneo citò le matiane presenti nelle tavole romane che provenivano da un villaggio situato presso le Alpi nelle vicinanze di Aquileia. Secondo alcuni studiosi, la zona era situata nell’attuale Collio, nelle Valli del Judrio e dell’Isonzo.

Columella, nel I sec. D.C., scrisse che fra le mele “maggiormente ricercate” vi erano le mele matiane e inoltre ne specifica il metodo di conservazione. Se conservate nel miele diventano più dolci e sembrano perdere il loro sapore naturale.

Si possono fabbricare delle cassettine di faggio o di tiglio, esse si collocano su un ripiano situato in un locale freddissimo e asciuttissimo, dove non arrivi né il fumo né alcun cattivo odore; sul fondo delle cassettine si distende della carta e poi vi si dispongono i frutti in modo che il picciolo sia rivolto verso il basso.

in basso e badando che un frutto non tocchi l’altro.

L’imperatore Domiziano cenava con una mela Matiana; quest’ultima nell’Editto di Diocleziano (nel 301 d.C.), venne presa a riferimento per classificare le mele di prima scelta commerciale.

La mela Matiana fu il risultato degli studi sperimentali “nell’arte dell’innesto” condotti dal fiduciario di Cesare Augusto in terra aquileiese Gaio Mazio (Matius).

L’usanza di denominare le varietà frutticole col nome del loro costitutore diede vita a questo nome. Altre varietà dell’epoca presero invece il nome dei governatori delle province in cui erano diffuse. La Matiana giunse sui mercati della Roma imperiale trasportata sulle navi che salpavano dal porto di Aquileia.

Le coltivazioni di melo nella campagna Aquileiese diedero origine ad alcuni toponimi coniati sul collettivo meleretum, fra questi spiccano Mereto di Tomba e Mereto di Capitolo. Santa Maria la Longa era nota per certo come Sancta Maria de Melereto. Sono oltre sessanta i toponimi sparsi in Friuli Venezia Giulia originati dalla presenza del melo, e sono uniformemente distribuiti su tutto il territorio regionale, dall’area montana, alla fascia collinare, a quella litoranea e al Carso.

Sono molteplici le denominazioni per indicare il melo (melâr, melàrie, miluçâr, pomâr) e la mela (mêl, melùç, milùç, pome); la mela selvatica è detta lop, mentre raccogliere le mele si dice miluçâ.

 

 

 

 

La mela tra credenze e cucina

Il frutto del melo è uno di quelli di cui si “cavano i regali incantati donati dalle fate”. Ai bambinetti si fanno mangiare mele cotte cosparse di zucchero per rendere lubrico il corpo (ossia per favorire la digestione); le mele lessate, con zucchero, sono un buon rimedio per il raffreddore.

Inoltre, nei tempi passati, si pensava che streghe non entrassero dove c’era odore di mela cotogna.

La mela cotogna era utilizzata come rimedio contro le ustioni: si mettono a bollire in un vaso due parti d’acqua ed una di mela cotogna e si lascia evaporare lentamente l’acqua fino a quando si ottiene una sostanza appiccicaticcia e gommosa la quale si applica sulla piaga. (Obermann)

In cucina si utilizzava sia la mela che la mela cotogna sottoforma di frittelle oppure torte.

 

 

Fonte.

Valentino Ostermann, La vita in Friuli: usi, costumi, credenze, pregiudizî e superstizioni popolari, 1894

Tiere furlane, Anno 1, Numero 1.